giovedì 16 ottobre 2008

-Spaccato assonometrico-

Scivola a terra una delle tre fiale sul tavolo.Intarsio dopo intarsio quelle due fiale rimaste riflettono distorte il colore plastico della madreperla, del quarzo e del corallo.
Doveva raccontare di come si sarebbe svolto il dibattito, di come la creatività si stava dissipando ma l'idea di aver perso ancora un cristallo di vita lo stava facendo impazzire.
Preparare il discorso lo avrebbe distratto per pochi istanti.
La sua malattia lo stava mangiando lentamente.
Un medicinale dopo l'altro, uno psicofarmaco dopo l'altro.
Paroxetina per stimolare serotonina, integratori per non farsi schiacciare dal peso della stanchezza.Blister di valium equivalevano a caramelle per bambini.
E' poterselo immaginare, il suo corpo, come uno spaccato assonometrico.In tutte le sue parti, anche le più piccole: logore, strappate, penzolanti. Ti cambia.Ti cambia tutto.L'ordine si sperde e cercare di cacciare un pò d'aria in quei polmoni malmessi diventa un grande traguardo quotidiano.
Anche la superficie più morbida e accogliente, l'atmosfera più docile e calda diventa un coltello conficcato tra la penultima e l'untima vertebra. Il vento che soffia graffia come lo strofinare della carta a vetro su un pezzo di legno grezzo.
Amare la vita a quel punto è solo un mentirsi gratuitamente, un darsi mezzo centesimo per ogni pensiero bello che il tuo cervello in quella merda ha saputo formulare.
L'anamnesi di una vita neanche troppo straordinaria è il computo metrico dell'espierienza ad essa associata.
E torni inevitabilente indietro, a quando così schifo poi non facevi. Ti amavi abbastanza e abbastanza profondamente credevi che saresti stato davvero qualcuno un giorno.
Sì, adesso lo sei. Un nero groviglio di fili sottilissimi. Tirati come corde di violino, in grado di segare qualunque buona intenzione.
E' fra le righe che qualcuno dovrebbe leggere, e con i piedi aver la voglia di tracciare una linea immaginaria tra la sua e la tua figura.Un'unica retta passante per due punti, due anime.
Ma cosa ti illudi di riuscire ad ottenere quando sentirai la pena farsi dimora nei tuoi occhi?
Dischiudi un pò le labbra. Ti riprendi per un secondo da quella dimensione onirica raggiunta in una grottesca veglia. Stavi ridendo di te. Stai ancora ridendo di te.
Come non invidiarti. Quale essere meglio di te conosce davvero che tipo di sensazione sia quella? Quale se non qualcuno nelle tue medesime condizioni.
Solo che se anche lo trovassi rideresti di te e di lui. E così via, per ogni volto che di fronte a te passerà e ti dirà quanto sia bello vivere di malattia proprio perchè è tramite essa che si diventa migliori.
Migliori di cosa? Di un suicida?Migliori di colui che commette omissione di soccorso?Migliori di che continui a chiederti.E continui ancora a ridere fin quando non rantoli a terra tossendo sangue.
Almeno abbracciando le tue membra il sipario si chiuderà con un faro puntato su di te,e tu morirai felice.

martedì 14 ottobre 2008

Colloquiando.

Lei.
Si alzi. Mh.
Sì, proprio lei.Venga a sedersi di fronte a me.

Mi faccia vedere qualcosa che non ho mai visto.
Ad esempio, sparebbe disegnarmi la mediocrità?
No sa perchè in questo studio si reclutano solo avventori in grado di mostrarci qualcosa di verosimilmente affiancabile all'inconcretezza.
Lei ne ha mai fatto uso?Sì, intendo proprio delle astrazioni.

Dice di non aver mai assistito a spettacoli di rara bellezza, come emanazioni di danze pulviscolo atmosferiche delle sinapsi?Interessante.
Sa, in questo ambito posso solo porgerle ulteriori domande a riguardo.

Mi dica, potrebbe associarvi un colore o un sapore?Potremmo giudicarla in base a questi due fondamenti.
Sa, nel nostro studio non ci piace tenere spettri ottici incolore e insapore.Non sarebbe politicamente corretto con il nostro programma aziendale.

E che mi dice dell'incalzante rumore che si estende per miglia e miglia, rumore bianco, sì quello, proprio quello, che mi dice riguardo la sua vitrea appartenenza alla società contemporanea, alla tecnologia asettica e talvolta menzognera, produttrice di stereotipati monoliti dall'aspetto zincato e dalle rifinitissime cromature?

Questo è uno studio di rispettabili professionisti esperti nel campo dell'autoreferenzialità artistica, produciamo solo ed esclusivamente monumenti autoctoni, torte nuziali personalizzate, targhette con sù nome e cognome dell'inventore.Nessuno spicca per bravuta o ingegnosità, quà si tratta di sfoderare se stessi da fondine anonime.
Non sforniamo geni. Lo siamo e basta. Ognuno a suo modo e maniera.

Dice di non avere mai avuto colloqui così dettagliatamente interessati alla sua formazione chiamata vita, esperienza?Sì, quel connubio di razionalità e concisa attenzione verso il particolare.

Lei ha qualche ossessione?
Se sì, le garantisco che in questo caso ha trovato una porta aperta sul mondo, qualcosa di straordinariamente connesso alla sua visione caliedoscopica dell'esistenza.

Dice di soffrire di insonnia?La mattina adora immergere i piedi in mattonelle ghiacciate bianco-avorio ad ore improponibili della notte?Mh.Aspetto interessante della sua carriera esistenziale.

E mi dica, cosa le provoca questa incapacità di organizzare un ritmo equilibrato tra sonno-veglia?
No sa, perchè se si tratta del fatto che pensa, e i suoi pensieri sono reticoli spinosi di tele che vorticano dal basso verso l'irraggiungibile, direi che siamo quasi a buon punto per quanto riguarda la sua assunzione.

In ultima analisi ma non per questo meno significativa, le domando, ha paura della morte?
No sa, qua non si tratta di un gioco al massacro qualsiasi, si parla di grattacieli vertiginosamente alti, si parla di vulnerabilità, si ha a che fare con la malattia, si ha a che fare con la percezione primordiale di noi stessi, il nostro istinto di sopravvivenza legato a questa giungla metropolitana e frenetica.
Dice di no.
Come fa dirlo? Siete usciti a prendere un caffè insieme, lei e la morte.

Mi dispiace. Fino a questo momento aveva fatto un ottimo colloquio, le sue referenze rispecchiavano perfettamente quelle dell'impiegato modello, colui che vive sulla terra con la speranza di servire a qualcosa, di come si suol dire lasciare il segno, quella sottospecie di ipocrita malattia di cui si muore più facilmente.
Lei non ha niente a che vedere con tutto ciò.

Avanti il prossimo.

P.H.

"Lei non dovrebbe essersene già andato al diavolo fuori di quì?"
Un ghigno ben marcato su quella faccia rugosa lo rende un estraneo nel proprio ufficio.
Dalla cornetta si sentono arrivare ancora lamentele.
Un telefono rosso vecchio stile, ritrovato in chissà quale angolo di mondo.Non fanno più gioiellini di plastica belli così.Un cimelio anni 50, per pochi intenditori.
Levando lo sguardo verso la porta, una figura dai capelli color dell'argento ha varcato quella soglia che non vedeva anima viva da troppo troppo tempo.Quel buco di posto non respirava altra aria se non quella di quell'uomo sudaticcio e stanco con problemi al fegato. Forse cirrosi.Sta di fatto che le bottiglie di gin erano le sole con cui sapeva davvero darci dentro.Le donne non ne volevano sapere di lui.Non poteva neanche permettersele, in quel fottutissimo ufficio non guadagnava abbastanza.Potea solo permettersi alcool e sigarette, il minimo indispensabile.
Una poltrona di pelle in un angolo, una scrivania in legno a cui mancava un piede, una sedia dura e scomodissima, pareti giallastre dal troppo fumo e nessun quadro.Neanche un diploma. I ragni erano i soli veri pardoni di quel ripostiglio: tessevano volentieri fitte trame di derisione e sorrisi crudeli.
Occhi sbarrati d'un azzurro cielo, voce rotta dall'isteria, fianchi larghi e mani tremanti. Ecco la sola figura che si autoinvitava ad entrare. Una donna, sulla trentina, ancora sconvolta e con un tic all'occhio sinistro.
"Ti avevo già detto che sarei tornata a cercarti, prima o poi!"
Gran parte del suo volto era cosparso di macchie bianche, piccole zone prive di melanina che disegnano un motivo ben più esteso.Era comunque una bella donna, sfatta ma bella.
C'era qualcosa in lei ma nessun ricordo preso e analizzato riportava ad un'identikit di quel volto femminile sfibrato e stanco. Niente di lei era familiare.
Indossa orecchini d'oro scrostato. Le sue mani tremanti sono bluastre, sintomo di una pessima circolazione sanguigna.
Lui la osserva.
Ancora niente.
Il suo cappotto a doppio petto liso col caldo che prende forma tra le pighe di quella stanza in quell'agosto scarlatto, ogni tanto qua e là piccole bruciature di sigaretta.Lentamente si abbandona a quel complemento d'arredo nell'angolo più scuro della stanza.
Ha piedi sottili, le scarpe che indossa li fanno sembrare ancor più minuti.
"Hai una sigaretta? ho bisogno di fumare"gli chiede senza guardarlo in faccia.
Lui apre uno dei cassetti della scrivania.Frugando in uno di essi scova una vecchia scatola di latta , la apre e estrae uno di quei cilindretti.
Glielo porge in silenzio.
Dalla tasca del cappotto la vede tirar fuori un'accendino d'oro su incise delle iniziali: "P.H." legge.
Per un istante smette di respirare.
Quella donna a tratti così eterea, a tratti così affranta alza lo sguardo sotto la nuvola di fumo della prima boccata e lo osserva.
"In blocco le tue sensazioni, adesso."
"Le conosco tutte. Ti conosco, Pherson Hell."
Portandosi la sigaretta alle labbra aspira ancora godendo del pietoso spettacolo che Pherson sta inscenando.
Annaspando in cerca di parole tende il mento verso qualcosa di contenuto e lucido.Anche lui il suo cilindretto. Lo accende e aspira avidamente quel fumo bluastro e cancerogeno. Le mani si fanno fredde, anche se è pieno agosto.Una di quelle torride giornate d'afa e umido.
"Ancora niente?!"
"Quella notte dovevo ucciderti, lo sai."
Acora niente veramente.
Lui chiude i pugni in una morsa, più stretti che può.Le unghie non curate e lunghe lo feriscono fino a fargli sanguinare i palmi di entrambe le mani.Non c'è niente che fuoriesca dalla sua bocca nonostante cerchi invano di aprirla riuscendo solo in una pessima imitazione di un pesce sul tagliere di un cuoco giapponese. A due centimetri una mannaia. Un coltello d'acciaio affilatissimo.
Un pò come quegli occhi da cui lui vuole sfuggire, taglienti e vitrei.
Pare morta. Ogni volta che smette di parlare ogni tendine del suo corpo si spegne, e si distende.
Al contrario di quel piccolo e indifeso Pherson. Era lui che fino a poco tempo fa mandava al diavolo l'ennesima possibilità di lavoro retribuito, anche bene, a patto che lui leccasse il culo. Ma niente.A questo non si voleva abbassare.
Uscire vivi adesso da quella situazione era la sola cosa che desiderava.
Jill lo stava assorbendo. Per qualche attimo il tempo pareva essersi dilatato e contratto in uno spasmo.
Pherson deglutisce a stento, sente il suo stomaco chiudersi in una stretta da boa costrictor.
Sapore di sangue in bocca.
La paura lo fa assomigliare alla brutta copia di un assassino pentito. Respirare adesso non è per legge più consentito.

Quello spettro di donna abbandona il palazzo sparendo all'angolo in fondo alla strada.
Il cielo si tigne di un rosso carminio, le auto riempiono i vuoti a perdere lasciati da altre auto.
Un tipico tardo pomeriggio di metà agosto.